Introduzione alla storia dei videogiochi
Introduzione alla storia dei videogiochi

Introduzione alla storia dei videogiochi

La rivoluzione digitale

Facciamo una prima comprensibile distinzione: a differenza di tutte le altre arti, i videogiochi nascono imperativamente digitali. Ma cosa significa digitale? Per introdurre al meglio la nostra storia dei videogiochi, dobbiamo fare una piccola prolusione in merito.

L’informatica ha, in un certo senso, inglobato in se tutte le altre arti. Per cui possiamo leggere da un tablet, ascoltare musica da un lettore, vedere un film da un blu-ray. Tuttavia il contenuto del nostro supporto digitale è analogico: è un suono, una voce, una persona. Ma l’analogico, essendo un segnale elettrico, è soltanto una riproduzione della realtà.  Così come il digitale, non è reale, è soltanto una riproduzione abbastanza precisa da farci credere di esserlo. L’analogico e il digitale hanno la stessa anima.

Quali sono le differenze? Principalmente il digitale permette una maggiore manipolazione dei contenuti. Questa rivoluzione ha avuto pesanti ripercussioni anche e soprattutto nel mondo della musica e del cinema degli ultimi 30 anni.

Quando guardiamo un film, ascoltiamo una canzone o leggiamo un libro, osserviamo lo scorrere degli eventi. La rivoluzione digitale permette per la prima volta di interagire direttamente con quegli eventi e di manipolarli. Ma quando vediamo un film per la seconda volta, gli stessi eventi accadono nella stessa identica sequenza temporale. Il videogame, potenzialmente, ci permette vedere le cose secondo un ordine non prestabilito che può portare a sviluppi apparentemente imprevedibili.

Perché apparentemente? Questi sviluppi casuali sono anche imprevisti? Basta pensarci un attimo per rispondere: in effetti no. Il gioco viene programmato includendo già dentro di se quelle differenze. Il gioco si muove secondo algoritmi che, seguendo regole prestabilite abbastanza complesse, riescono a farci credere di essere casuali.

Dal punto di vista dello spettatore le conseguenze sono impreviste, ma non dal punto di vista del gioco. La stessa cosa accade con il cinema[1].

Tutto questo potrebbe essere destinato a cambiare nei decenni a venire. I videogiochi sono stati una delle prime applicazioni pratiche delle teorie sull’intelligenza artificiale, che ci permettono di poter esplorare nuove e affascinanti forme della possibilità.

Intelligenza artificiale e videogiochi

Rete neurale

Un’inquietante conseguenza del progresso informatico è quella profetizzata da uno dei più grandi scrittori di fantascienza di sempre, Isaac Asimov, che in tutta la sua produzione letteraria, si è occupato delle possibilità e delle eventuali conseguenze storiche e morali della presa di coscienza delle macchine.

Le stesse problematiche erano già state prese in esame da Cartesio nella prima metà del 1600. In “Discorso sul Metodo” (1637), Cartesio elabora un principio che sarà il fondamento del suo pensiero: “cogito ergo sum“. Penso, dunque sono.

Il filosofo britannico Thomas Hobbes, criticando le tesi di Cartesio, affermava che la mente umana non è altro che un insieme di calcoli eseguiti dal cervello, esattamente come da un calcolatore. Se un calcolatore è in grado di eseguire calcoli altrettanto complessi, allora il calcolatore non è più una macchina, è una mente.

Da questi concetti, Alan Turing nel 1950 elabora un Test che stabilisce se una macchina sia o no in grado di pensare. Il test si basa sulla possibilità da parte della macchina di riprodurre esattamente le funzioni cognitive umane.

Ma se si riuscisse a creare un’IA complessivamente superiore a quella umana?

Secondo la teoria dell’intelligenza artificiale forte[2], questa macchina sarebbe in grado di superare gli uomini in campo artistico e scientifico. Non solo, potrebbe essere in grado di produrre le migliori opere di musica, letteratura, cinema e filosofia che il mondo abbia mai visto o inventare nuove forme d’arte.

Se il mondo del digitale riuscisse ad essere o almeno a illuderci di essere, abbastanza complesso come il mondo che noi consideriamo reale, non diventerebbe esso stesso un mondo altrettanto reale?

Certo, noi percepiamo subito la diversità delle macchine rispetto agli esseri viventi, perché esse non hanno corporeità. Ma se l’avessero? Se le macchine riuscissero a raggiungere un livello di complessità tale almeno da ingannare la nostra percezione, non sarebbero quelle macchine esattamente paragonabili agli esseri umani?

Sono molte le opere nate partendo da queste digressioni: film come 2001: Odissea nello spazio (1968), Alien (1979), Terminator (1984), la trilogia di Matrix (1999), Inception (2012) o Lei (2013), ma anche videogiochi come Fallout (1997), System Shock 2 (1999), Mass Effect (2007) o I Have No Mouth, and I Must Scream (1995), ispirato al racconto di Harlan Ellison “Non ho bocca, e devo urlare” (1967).

Fra realtà e illusione

Per Giacomo Leopardi, l’arte è il rifugio degli uomini dalla natura imprevedibile e nullificante del mondo. Tenendo ferma questa definizione i videogiochi sono l’arte di ingannare le nostre percezioni in maniera abbastanza efficace da permetterci di trovare rifugio nel mondo virtuale.

Il cinema ha moltissimi punti in comune con il videogioco[3], ma il videogioco aggiunge una componente empatica potentissima: l’interattività. Se il mondo con cui interagiamo è abbastanza credibile, quel mondo diventa reale, magari anche migliore della realtà.

Da un punto di vista filosofico il videogioco è la massima dimostrazione dell’illusorietà del divenire del mondo e dunque, la massima espressione possibile della creatività umana, dell’esser uomo in quanto volontà di potenza, di dominare e manipolare il mondo.

Simulando la vita, creando mondi assurdi frutto soltanto della creatività come solo la letteratura e il cinema hanno saputo fare, e alleandosi con il potente Dio del XXI secolo (la tecnica) nella sua forma più subliminale: il progresso tecnologico dell’informatica, per la prima volta nella storia diventa possibile, non soltanto sentire e osservare l’arte, ma toccarla con mano e interagire con essa; lasciare che diventi non solo essa parte di noi, ma noi stessi parte di essa.